Intervista a CARL BRAVE

21/08/2021

Con una superband e una valanga di ospiti («Sì, ce ne saranno tanti!») il cantautore rap Carl Brave sarà lunedì 23 agosto alle 21 in concerto all’Arena. In questa intervista ci ha raccontato com’è arrivato a trasformarsi da giocatore di basket professionista a «rapautore».

Da grande voleva fare il giornalista, ma è diventato un giocatore di basket professionista, prima di mollare tutto e trasformarsi in uno dei cantautori rap – anzi «rapautori» – più interessanti della scena italiana. E lunedì 23 agosto alle 21 – in una tappa speciale del Coraggio Live Tour 2021 – il romano Carl Brave (all’anagrafe Carlo Luigi Coraggio, classe ’89) corona il sogno di esibirsi sul palco dell’Arena di Verona dopo averlo fatto per diversi anni… per finta.

D: Carl Brave, com’è ‘sta storia che già da anni suoni all’Arena?

R: «Ma è uno scherzo! Da tempo, la mia band ed io saliamo sul palco e dovunque siamo, salutiamo il pubblico dicendo: Ciao, Arena di Verona!».

D: L’Arena rappresenta per molti l’inizio di una carriera (Emma, Alessandra Amoroso…), per altri il culmine, per altri una tappa obbligata (Zucchero, ormai di casa a Verona). E per te cos’è, ora?

R: «Ha un grande significato. Gag a parte, per me è un mito. È come aver fatto scacco matto. È uno step decisivo per la mia carriera, anche per il numero dei musicisti coinvolti nel mio spettacolo».

D: Infatti all’Arena non sarai solo…

R: «Sì, avrò con me una grande band. Ve li nomino tutti: Marco Bonelli al sax, Simone Ciarocchi alla batteria, Matteo Rossi alle tastiere, Lorenzo Amoruso e Massimiliano Turi alle chitarre, Mattia Castagna al basso e Lucio Castagna alle percussioni. E poi Edoardo Impedovo e Gabriele Tamiri alle trombe e con i coristi Francesco Sacchini e Marta Gerbi. Il regista Giancarlo Sforza cura la parte visiva e la scenografia del tour. Diciamo che così riesco a mettere il piede destro dentro l’Arena…. E spero sia solo l’inizio. Anche se rappresenta un punto d’arrivo».

D: Con tutti i featuring che hai, con tutti gli artisti presenti nei tuoi album, mi sa che avrai pure qualche ospite all’Arena…

R: «Eh, sì! Di ospiti lunedì sera ce ne saranno tanti! Non voglio fare nomi per non rovinare la sorpresa. E dove non ci sono, ci saranno soli di tromba, pianoforte oppure sax».

D: Magari ci sarà Noemi, con cui canti l’hit “Makumba”. Domanda scema: l’hai scelta perché aveva cantato per un altro “Brave”, il film d’animazione “Ribelle”?

R: «Nooooo! Ma mi ha chiamato lei! Infatti questo pezzo è uscito per un suo album. Ha una voce interessante, Noemi, con un timbro clamoroso. Ha pure un’ironia molto romana, una particolarità che non si avverte molto quando le vengono affidati brani cantautorali, magari un po’ seri, profondi. “Makumba” è una delle prime volte – almeno io la sento così – in cui si vede in pieno il suo aspetto solare, allegro, leggero. Lei è così».

D: Per l’Arena hai pensato anche a nuove versioni dei tuoi brani?

R: «In realtà sono stati tutti riarrangiati per questo tour che sta attraversando l’Italia. Volevo dare maggior respiro alla musica, perché è sempre la musica a ispirarmi le parole delle canzoni; la base musicale è la radice delle composizioni».

D: Anche se la parte più affascinante e immediata di album come “Notti brave” e “Coraggio” rimangono i testi,  pure quelli criptici per i non-romani, come «Se vieni, fai l’Olimpica…»

R: «Che non vuol dire “fai la fenomena”, ma “prendi la strada che collega il Foro Italico all’Eur”».

D: Sì, ma su Google Maps non esiste con questo nome. Da dove ti arriva questa capacità descrittiva, come quando dici “Ichnusa “ al posto di “birra” e basta?

R: «Le marche mi piacciono per il loro suono. Una birra è un termine generico; dire Ichnusa ti porta subito a visualizzare un determinato momento, certi colori, una situazione definita».

D: E infatti alcuni tuoi brani – per esempio “Le Guardie”, dipingono un momento esatto, come un articolo di giornale, un pezzo di cronaca nera: «Appuntato, le giuro, non è stata colpa mia. Giovedì stavo in via … con du’ amici di una vita, usciti a bere due sciocchezze, a di’ cazzate su ragazze, a raccontarci barzellette. Fatto sta che, a una certa, è successo il parapiglia. Questo tipo ha scapocciato in un battito di ciglia».

R: «E infatti da grande volevo fare il giornalista! Mi reputo ancora un cronista. Questo brano, come un altro intitolato “Fratellì”, racconta un’esperienza che ho vissuto davvero. Non c’è dubbio: le storie dark, quelle che trattano il lato oscuro della vita, sono più impattanti. Sono “real”, e questa la senti che è una storia vera, perché ti arriva dritta alla capoccia».

D: Lì si sente l’influenza dei canti di malavita romana, da Claudio Villa agli Ardecore, compreso Franco Califano. Senti anche tu l’influenza del “Califfo”?

R: «Come tanti artisti romani, sono nato sotto l’ombra del mito di Califano ma non me lo sono sentito tanto vicino. Oh, è un genio assoluto, non si discute, ma io vengo dal rap. ‘Sta roba dei cantautori ce l’ho dentro, nel sangue, e l’ho sentita tanto da ragazzino. Se esce nelle canzoni, è un po’ inconscio».

D: Vieni dal rap ma anche dal basket…

R: «Oh, sì! L’amore per il basket va di pari passo con l’amore per l’hip hop e tutta la cultura afroamericana. Ho iniziato a fare rap a 14 anni, ma ho cominciato a giocare a basket a 7 anni. Il rap è sempre stato la mia seconda passione, visto che ero ossessionato dalla pallacanestro. E infatti dai 7 ai 22 anni ho giocato a basket; in pratica non ho fatto altro. Finché ho dovuto scegliere tra la vita da giocatore professionista – ero in Serie B – oppure un’altra vita, dove dovevo sporcarmi un po’. E lì ho capito che la vita da giocatore non era ciò che volevo fare. Così sono andato a fare una scuola di musica a Milano e poi, e poi… Eccomi qui, all’Arena. Direi che è andata bene».

D: Dici che dovevi sporcarti un po’. Intendi che da giocatore avresti dovuto essere più inquadrato, più disciplinato?

R: «Sì. Ma non solo. Io vengo da Roma e nella vita da giocatore professionista di basket devi girare tanto, soprattutto nei paesi, in provincia. Non che nei piccoli centri mi sia trovato male, anzi! È che venendo da una metropoli come Roma, “piena de ggente, pieno di amici”, quella del paese non era la mia dimensione. E poi la vita da sportivo è una vita di rinunce. Ma io mi volevo divertire, volevo uscire, vedere gente, fare serata… Ho bisogno di vivere, di vivere tanto, per poter scrivere canzoni».

Giulio Brusati

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